di Alessandro Pagni
@ale_pagni
La notte non è solo un intervallo che va dal tramonto all’alba del giorno successivo.
Non è soltanto il momento del riposo.
È una condizione interiore, il più delle volte non cercata, non richiesta.
Qualcosa che capita, come nascere in un determinato luogo, in un particolare momento.
O avere in sorte determinati genitori e altrettanti difetti.
Qualcosa di seducente e al contempo affilato, che incide la membrana posta a protezione degli intimi recessi della mente.
Senza dubbio, è questo che mi ha fatto accostare con interesse ai lavori di Mauro J Pellegrini, classe 1989, giovanissimo e già straordinariamente consapevole e contaminato dalle molteplici possibilità di espressione, messe a disposizione dalla pratica della messa in scena fotografica (Staged Photography, per gli affezionati).
La sua tecnica è sapiente, sicura, i dettagli sono curati con passione e la scelta cinematografica delle locations, ci racconta di un solido bagaglio che nutre il suo immaginario, spaziando dalla magrittiana Golconda (L’avanzata notturna, 2011), alla liquidità caotica delle forme incontenibili, presenti nelle più celebri immagini di Jeff Wall (Insieme in un giorno d’autunno, 2012, è una citazione diretta e così anche la scelta, per quanto riguarda alcune opere, del supporto lightbox), fino a toccare i notturni buio pece di David Lynch (conditi con suggestioni legate ad antieroi attuali come il Dexter Morgaan della serie tv culto), sempre in bilico fra la sensazione di trovarsi a osservare impotenti l’occultamento di un cadavere e quella di contemplare divertiti, i feroci sberleffi nei confronti del mondo fatto di apparenze, della buona borghesia (The Dark Passenger, 2011).
Cari figli e cara moglie, sento il dovere di spiegare il perché di ciò che sto per fare (2013), è un’immagine con una forza drammatica pazzesca, che concentra in un solo scatto, tutti quelli che sembrano fino ad ora gli elementi della poetica di Pellegrini, una sorta di bandiera del suo “fare”: la vecchia scrivania illuminata, lo schermo buio di un monitor per computer e ovunque (per terra e sul tavolo) ripensamenti, sotto forma di covoni di carta abbandonati, sembrano dichiarare che l’argomento dell’immagine in questione, non è il suicidio, sebbene ne evidenzi tutti i simboli che la nostra società può facilmente riconoscere; il vero tema sembra essere l’impossibilità di comunicare (a chi resta), l’abisso e di giustificare la soluzione drammatica che il soggetto va cercando.
«Come posso spiegarvi quello che sto per fare?»
Ma la società, con un ultimo sopruso sull’animale-uomo, ormai totalmente addomesticato, esige un ultimo chiarimento, impone un ulteriore senso di colpa.
L’occhio rimbalza in modo vorticoso incessantemente, da uno all’altro di questi quattro punti cardinali dell’attenzione: ci sbatte con violenza sullo sfondo, dove arreso, immobile (bloccato su una sedia a rotelle), privo della facoltà di compiere da solo il gesto che lo può liberare, temporeggia il soggetto; immediatamente veniamo strattonati indietro dove la scrivania rappresenta l’impedimento intellettuale, per alcuni morale, di sigillare con parole definitive e chiare quel desiderio di conclusione e, infine, veniamo condotti al patibolo volontario, al centro della fotografia, di uno sgabello e un cappio teso.
Quanti misteri irresistibili prendono fuoco in questa immagine.
Forse questo scatto non parla neppure dell’impossibilità di comunicare, ma di incapacità, impossibilità, impedimento, fini a se stessi.

Cari figli e cara moglie, sento il dovere di spiegare il perchè di ciò che sto per fare, 2012 ©Mauro J Pellegrini
È questa la cifra stilistica di Mauro J Pellegrini, costruire rebus che non sono accompagnati dalla soluzione, ma rendono palpabili le ambiguità e le contraddizioni del vivere.
Il suo, a parer mio, è solo un surrealismo apparente, c’è dietro alle sue messe in scena, una forte aderenza alla vita, raccontata per metafore: le sue immagini sono enigmi liquidi, di quella liquidità anarchica che non si può imbrigliare, di cui mi sono scoperto un naufrago appassionato.
Serie come D(h)ead Control (2011) e L’inganno (2011), raccontano ancora e ancora il mistero assurdo del vivere, del nascere soli e in una parabola più o meno ampia, ritrovarsi di nuovo soli a contemplare l’ineluttabilità della morte, con gli stessi occhi incerti, di chi ha visto troppo o troppo poco, nell’indifferenza volgare dei muri che ci siamo edificati attorno.
Come una domenica pomeriggio (2012), è forse lo scatto che meglio di altri riesce a sublimare e condensare questa sensazione di penombra emotiva: un corteo triste di carrelli da supermarket, si perde nella nebbia gelida di un altrove di cui non sappiamo niente, snocciolando un rosario sommesso di bassezze quotidiane, volgari come i pettegolezzi durante un funerale.
«Come mille voci nascoste che sussurrano “È questo tutto ciò che sei”. E tu lotti contro la pressione, quel bisogno crescente che sale dentro come un’onda che punge, brucia, insiste per essere appagato. Poi una voce si fa più forte, finché non ti urla “Adesso!”. E quella è l’unica voce che senti. L’unica voce che vuoi sentire. E tu appartieni a lei. A questa ombra di te stesso. A questo…oscuro passeggero» [1]
[1]: Dexter, stagione 2, episodio 3.
Proprio lunedì sono andato a vedere la mostra di Jeff Wall al PAC di Milano. Era un po’ di tempo che volevo vedere le opere di questo artista: personalmente sono rimasto profondamente deluso sia dal lavoro che dall’esposizione. A parte un’innegabile perizia nella realizzazione materiale delle opere (che dubito esegua lui stesso) io non sono stato capace di trovarci qualcosa che valesse gli 8 € del biglietto di ingresso. Questo giovane autore perciò mi sembra ben meglio del canadese, ammesso che abbia senso il paragone (forse no).
Caro Marco, non so cosa tu di preciso ti aspettassi dalla mostra di Wall, non sono stato ancora alla mostra milanese e quindi non posso entrare in merito, ma posso dirti che il suo contributo teorico e creativo è stato determinante per la fotografia contemporanea sotto molti aspetti.
Ne abbiamo fatto cenno anche noi su Foto For Fake, tempo addietro (https://fotoforfake.wordpress.com/2013/01/15/il-senso-di-fff-per-lacqua/): la questione non credo si posso esprimere, come molta dell’arte contemporanea, basandosi sul concetto di “mi piace” o “non mi piace”, l’importante è domandarsi cosa ha aggiunto e quali riflessioni ha messo in campo e quanto poi sono state successivamente raccolte dai fotografi venuti dopo e ti assicuro che l’influenza è rilevante.
Se ti va, leggiti i suoi scritti partendo dall’importante e complesso J. Wall, Fotografia e intelligenza liquida, in Un’altra obiettività, cat della mostra a cura di J.-f. Chevrier – J. Lingwood, Milano, Idea Book, 1989, pp. 231-232. Una riflessione davvero intrigante che riprende anche Smargiassi in un suo bel post di alcuni mesi fa (http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/tag/jeff-wall/).
Per quanto riguarda il fatto che abbia eseguito o meno quelle opere, ti ripeto non ho visto la mostra a Milano quindi non posso entrare in merito di questo, dell’allestimento e del costo del biglietto. Solitamente è lui l’autore e non capisco da cosa ti venga questo dubbio (ma ripeto non ho visto l’esposizione).
Il mio paragone con Wall, per quanto riguarda Pellegrini è legato alla su foto da titolo Insieme in un giorno d’Autunno confrontata con questa particolarmente famosa di Wall: http://www.moma.org/interactives/exhibitions/2007/jeffwall/library/13_Sudden.jpg; inoltre l’ho paragonato al fotografo canadese per la scelta delle lightbox come supporto in molte sue opere (due indizi non fanno una prova però…se li metti insieme ci fanno pensare a un dialogo con tale autore, più che a una coincidenza) e infine per quel senso di liquidità dei concetti che qui sarebbe arduo spiegare in poche parole, senza prima aver letto il testo che ti ho indicato.
Per quanto mi riguarda il paragone a Wall (ma non è l’unico che ho fatto), voleva essere un complimento a Pellegrini e alla profondità con cui affronta certe tematiche sia sotto l’aspetto tecnico, metaforico e di contenuto (oltre a una ottima conoscenza della Storia della Fotografia).
Giudica tu se ha senso o meno, il paragone (io credo di si, anche se in parte certamente, come puoi evincere dal mio testo e da queste considerazioni).
A presto
Alessandro
Riguardo Wall mi sono note le sue considerazioni critiche e teoriche, anche se non approfonditamente dato che non ho mai letto i suoi scritti (li leggerò). Scritti che per altro non erano presenti nel bookshop del pac (scelta singolare visto che wall è proprio noto soprattutto per il contributo concettuale). Al di là di questo aspetto, che non ho difficoltà a riconoscere, io non sono proprio riuscito a farmi catturare dalla suggestione del suo lavoro visuale. Non sono certo lavori amatoriali, ma li guardo come guarderei i cartelloni di D&G a Malpensa. Non mi lasciano dentro nulla. Non voglio essere polemico, come al solito, ma a me risulta muto e che abbia scritto tantissimo e benissimo per me può avere al massimo un valore complementare, non sostitutivo. Il discorso per me finisce nella sfera dell’intelletto e dell’istruzione e della cultura, l’arte visiva afferisce alla pancia e al subconscio (per me).
Quando dubitavo sulla realizzazione delle opere, specificavo “materiale”, intendendo dire la stampa delle opere. Hanno una dimensione talmente grande che dubito si sia dotato di tali macchine, anche se in linea di principio è possibile.
Per ultimo anche il mio voleva essere un complimento al giovane autore. Parafraso me stesso: non so dire se abbia senso il paragone con Wall o meno, a me rimane il fatto assolutamente personale che questi è in grado di provocarmi una fascinazione con le sue opere, cosa che il grande Wall non è stato in grado di fare. Magari la “colpa” è solo mia, che sbaglio o non capisco.
mi sa che a volte non riesco molto a esprimermi…
ciao
Tranquillo Marco ti esprimi perfettamente :-).
Rispetto la tua opinione su Wall e come non potrei, sono contento che Pellegrini ti sia piaciuto.